Professione di FIDE: Alessio Valsecchi, gli scacchi e l’arrocco mancato

La prima volta che mi sono imbattuto nel gioco degli scacchi è stata sul finire degli anni ’70. Non ricordo se a casa o fuori, se in TV o in qualche cinema estivo all’aperto, quello che mi è impossibile dimenticare è il tipo sinistro sullo schermo – la faccia dipinta di bianco e vestito di nero – che muoveva questi cosi davanti a un biondino secco e preoccupato.

Il Settimo Sigillo mi scorreva davanti in tutta la sua lentezza, e io non capivo niente della storia, però le parti sul gioco mi affascinavano tanto, soprattutto quand’era il turno del tizio sinistro – la Morte, mi spiegò qualcuno – a muovere i pezzi.

Ecco: “morte”, “fascino” e “non capirci assolutamente un cavolo” sono state le tre costanti che da allora hanno accompagnato il mio rapporto con gli scacchi.

La scacchiera ai tempi già la conoscevo, era quella cosa su cui giocavo a dama con mia nonna a Natale, ma quegli strani cosi, i “pezzi”, mi erano totalmente sconosciuti. E mi venne una voglia tremenda di averli tra le mani e poterli muovere sulle caselle. Ma nella “famiglia Valsecchi” nessuno giocava, così il piccolo Alessio dovette aspettare anni prima di avere l’occasione per farlo.

Un fotogramma del film Il Settimo Sigillo: la Morte gioca a scacchi col cavaliere Antonius Block

Un fotogramma del film Il Settimo Sigillo: la Morte gioca a scacchi col cavaliere Antonius Block.

Primi anni ’80, oratorio estivo. Non il mio solito oratorio dietro casa, quello in centro dove andava il mio migliore amico e le attività possibili erano molto più numerose e variegate del solo e semplice “giocare al pallone”.

Nella sala dei giochi coperta un giorno vidi questo tizio, fortunatamente molto più giovane e meno sinistro di quello nel film di Ingmar Bergman, che se ne stava da solo a sistemare i pezzi sulla scacchiera e a rimirarli soddisfatto. Nonostante la mia timidezza mi feci avanti e gli chiesi di spiegarmi e lui, con mia grande sorpresa, lo fece.

Questo pezzo è il Re. È il pezzo più importante. Si muove di una casella in ogni direzione e quando non può più fuggire hai perso.
Questa è la Regina. È il pezzo più forte di tutti, si muove in orizzontale e di traverso per tutte le caselle che vuole.
Questa è la Torre, si muove solo in orizzontale.
Questo è l’Alfiere, si muove solo di traverso.
Questo è il Cavallo, e si muove a “L”, due caselle di lato e una avanti.
Questo è il Pedone, si muove di uno (o di due, in apertura) in avanti ma può mangiare solo di traverso.

E intanto, mentre lo ascoltavo rigirandomi tra le mani quegli oggetti così fantastici al tatto, io pensavo: Sì, sì, va bene, va bene, ho capito, ok, dai cominciamo che mi prudono le mani, daiii!

Poi giocammo e scoprii di avere un talento innato per questo gioco di essere completamente negato per gli scacchi. Una sega totale, mai vista prima.

Persi tre partite in un attimo e il mio entusiasmo scemò.
“È normale all’inizio perdere, vedrai che più volte giochi più diventerai bravo” mi disse il maestro prima di andarsene. Quelle parole non mi salvarono dal tornare a casa abbacchiato e senza più gioia di vivere.

Dopo cena stavo però già meglio e mi riproposi di riprovarci l’indomani.
Ma il giorno dopo il tizio gentile non si fece vivo, e neppure il giorno dopo e quello dopo ancora.
Non lo rividi mai più. Forse dopo ogni nostra partita persa gliene avevo tirate così tante di maledizioni nella mia mente da averlo fatto morire calpestato da un cavallo o schiacciato sotto una torre. O sposato con una Regina che ora lo stava schiavizzando chissà dove.

Una nuova occasione per giocare venne qualche mese dopo, quando a scuola cominciammo a fare lavoretti col traforo e come verifica di fine quadrimestre fummo costretti a produrre “qualcosa” di bello e utile.

Io mi presentai con quello che nella mia mente era il Castello di Grayskull dove giocare con gli adorati pupazzetti di He-Man e Skeletor: un coso orendo fatto di pezzi di cartone e compensato che stava in piedi a forza di scotch, vinavil e preghiere. Il mio migliore amico comparve invece con una elegante scacchiera – realizzata con tre tipi differenti di legno – che sembrava opera di un fine artigiano di Cantù.
Il pomeriggio di quel giorno il suo manufatto alimentò le nostre prime sessioni di rivalità scacchistica, il mio alimentò le fiamme del camino di casa.

E comunque non c’era verso: perdevo sempre.
Il problema è che perdere mi faceva (e mi fa) sentire stupido, e sentirmi stupido è per me l’esperienza peggiore in assoluto.

Chiusi così questa breve parentesi bianconera e mi dedicai ad altro: il tennis. Che a ben vedere è uno sport che con gli scacchi ha tantissimo in comune: due rivali che si fronteggiano e si sfidano senza pietà, colpo dopo colpo, isolati dal mondo e persi nei loro pensieri (di morte, per l’altro).

Solo che a tennis me la cavavo bene e non ne ricavavo che gioie e soddisfazioni: una volta appagato da un’attività finalmente “di successo”, pedoni e alfieri sparirono dai miei pensieri.
Fino al 1985.

Alessio Valsecchi ha un problema con gli scacchi: li pensa ma non ci sa giocare

Gli scacchi sono spesso nella mia mente, peccato che io sia un impedito totale a questo gioco.

Quell’estate passai una settimana a casa del mio “amico del mare” di Pietra Ligure, ospite dei suoi genitori. Riempire un’intera giornata di cose interessanti da dire e da fare era difficile: quando trovammo in un armadio in casa una scacchiera con tutti i pezzi decidemmo in un attimo di provare a giocare.

Scoprii così che al mondo esisteva uno più sega di me a giocare.

La volta che vinsi la mia prima partita me la ricorderò sempre: era sera, al terzo piano c’era una bella brezzolina fresca, in TV stavano passando L’estate sta finendo dei Righeira. Pronunciare “Scacco Matto” fu un tale godimento che non riuscii a trattenermi dal correre sul balcone, alzare le braccia al cielo e gridare wuuuuuuuuuuuuuuu!

Giocammo subito una seconda partita e vinsi anche quella.
Due partite a zero: ero il dodicenne più felice sul pianeta.

Sarei partito di lì a cinque giorni, quindi avremmo avuto il tempo di giocare ancora per 4 giornate: decidemmo di sfidarci al meglio delle tre partite ogni dì fino alla partenza.

Vinsi la seconda giornata 2-1, persi la terza 2-1, persi la quarta 2-0.
Quattro giorni di gioco ed eravamo in parità assoluta: di comune accordo si decise che la quinta e decisiva giornata sarebbe stata al meglio delle cinque partite.

Quella mattina capimmo subito entrambi che la giornata era diversa dalle altre. Andammo a bighellonare nei bar sulle spiagge a videogiocare, svogliati di brutto e senza alcun entusiasmo. Già a pranzo non ne potevamo più. Scofanati primo e secondo senza alzare gli occhi dal piatto, divorammo infine le coppe di macedonia in un attimo e ci spostammo subito al “tavolo della sfida”.

Ero preoccupatissimo: non mi era sfuggita l’evoluzione a me sfavorevole dei punteggi delle più recenti giornate.

Cominciammo a giocare alle due di pomeriggio e andammo avanti fino alle undici, con pausa merenda e pausa cena. Vinsi la prima facile, persi la seconda malamente, la terza partita durò un’eternità e mi vide sconfitto. Mi sarei tagliato una mano piuttosto che perdere: quando riuscii a pareggiare sul 2 a 2 – vincendo la quarta combattutissima partita – ero ormai completamente svuotato.

Uno dei due propose “andiamo a sdraiarci un attimo, poi facciamo la bella” e l’altro accettò.
Ma una volta appoggiata la testa sul cuscino ci addormentammo entrambi nel giro di pochi secondi.

Non giocammo mai “la bella”, il giorno dopo mio padre venne a prendermi di primissima mattina e non passai mai più le mie vacanze a Pietra Ligure. Del mio amico persi completamente le tracce nel giro di qualche anno.

Un'immagine scherzosa di Alessio Valsecchi alle prese (forse) con gli scacchi

Alessio Valsecchi campione di scacchi? Naaaaa, di costine!

Non ho mai più giocato a scacchi da allora, ma non ho mai smesso di esserne affascinato.

Anni dopo, nel 1993, passai giorni e giorni a vedere i turisti sfidarsi al bar del camping di Grimaldi di Ventimiglia (durante una delle estati più emozionanti della mia vita), e ogni volta che mi imbatto in questo gioco, in questo sport, il cuore mi batte forte.

Si può amare così tanto una cosa e starle così tanto lontano?
Apparentemente sì, così come accade con certi amori, con certe bevande, con certi posti, con certe sostanze.

Ma non c’è pace: cinema, libri e televisione non fanno che punzecchiarmi di continuo sull’argomento.
Ma di questo parlerò nel prossimo aggiornamento… tra qualche giorno mese anno!

Alessio Valsecchi
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